Roberto Latini ha risposto all’invito di Epica Festival di pensare a una performance sul senso del teatro e dell’arte componendo Venere e Adone (siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni). Intercetta frammenti di immaginario (da Shakespeare a Tiziano, Rubens, Canova, Carracci, Ovidio) che attraversano il mito nell’arte, declinando forme e sostanze.
In tutti, una sospensione, un respiro-fotogramma, solo, fermato, definito, come a impedire che il racconto si possa compiere nel finale che già sappiamo.
In uscita da questo tempo immobile, mi piace riferirmi allo stesso argomento che scelse Shakespeare quando i teatri a Londra nel 1593 furono chiusi per la peste: Venere e Adone.
L’amore terrestre e quello divino nel disarmo di un destino ineluttabile.
Voglio smettere lo spettacolo, o la proposta che gli farebbe il verso, a favore di un materiale in movimento, incessante, fluido. Provare ad aprire al pubblico l’impreparazione del processo creativo, non alcuna pretesa di prodotto finito. Immagino percorsi senza tappe, oppure immagini senza continuità. Di versi dispersi.
La scena suggerisce la creazione, eppure non l’afferra, lasciandosi ciclicamente contemplare o collocare altrove.
È forse la speranza che si possa vincere il destino, dando all’Arte il compito di sfidare il tempo e trattenerlo.
Sospenderci nella tenerezza. Venere e Adone è la storia di ferite mortali, di baci sconfitti che non sanno, non riescono a farsi corazza, difesa.
Anche Amore non può nulla. Anche Amore è incapace; è sfinito, è logoro, è vecchio. Sconfitto.
Cadendo, comunque, fa un volo infinito.
Roberto Latini